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Bruno Querci - Rolando Tessadri
Un'astrazione rigorosa

A cura di Giorgio Bonomi
2015

*copertina catalogo Giraldi* - copertina del catalogo della mostra

Giorgio Bonomi: Conversazione con Bruno Querci e Rolando Tessadri

Giorgio Bonomi “Natura non facit saltus”, cioè “la Natura non fa salti”, quindi c’è sempre un rapporto di causa ed effetto in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti (della natura e dell’uomo). Se questo concetto lo portiamo nella storia in generale e in quella dell’arte in particolare, vediamo che ogni realtà ha una causa antecedente e quindi ogni artista ha un suo “padre” da cui, come devono fare i figli per crescere e maturare, si deve staccare, rinnovando e sviluppando i punti di arrivo “paterni”.
A me sembra che tu, Bruno Querci, possa annoverare tra i tuoi primi ascendenti Piet Mondrian. Costui usava, come è noto, solo i tre colori primari (giallo, rosso e blu), il nero (somma di tutti i colori), il bianco (assenza di colori) e il loro medio (il grigio). La forma delle sue opere, poi, era sempre quadrata o rettangolare, in più aborriva la linea curva e la diagonale tanto che ruppe il sodalizio con l’amico Theo van Doesburg, proprio perché questo aveva usato la diagonale, e attaccò al muro un suo quadro sul vertice dell’angolo e non già sul lato per dimostrare come si potesse ottenere la linea diagonale senza rompere la rigida ortogonalità.
Tu mi sembri ancora più rigoroso di Mondrian: riduci i colori al nero e al bianco – qui è obbligatorio un riferimento al compianto Filiberto Menna, il teorico della linea analitica nell’arte contemporanea, che teorizzò anche “l’astrazione povera” con un forte riduzionismo che comportava una pittura solo in bianco e nero – ed usi sempre composizioni ortogonali, sia nei supporti che negli spazi della tela, riprendendo talvolta la lezione del Maestro olandese anche per ottenere la diagonalità.

Bruno Querci Sicuramente la pittura di Mondrian è nel mio bagaglio formativo, condividendone le ragioni operative. Ho lavorato sempre sulle invarianti costruttive e sull’azzeramento cromatico nella ricerca di una formatività di base in cui le componenti linguistiche fossero evidenti. Il mio partecipare all’astrazione povera teorizzata da Filiberto Menna è stata la mia partenza in uno sviluppo che si sta dipanando fino ad oggi.


G. B. Tu, invece, Rolando Tessadri puoi annoverare come faro da cui partire per il tuo cammino Piero Dorazio. Il Dorazio dei “reticoli” i quali, attraverso mille fili – mi pare che mai metafora fu più appropriata! – avevano tratto una qualche ispirazione da Giacomo Balla e, ancor prima, dal simbolismo e divisionismo italiani per quel loro modo di utilizzare il “tratto”, il segno, il segmento di colore. Certo, Dorazio usava tratti orizzontali e diagonali, invece tu usi la griglia, un reticolo ortogonale e, in più, colgo una certa differenza tra le vibrazioni del tuo colore, causate dalla luce, che risulta quasi monocromo e le vibrazioni nelle opere di Dorazio che hanno un ritmo e una vibrazione dati più dal segno e dal colore.

Rolando Tessadri Dorazio è senza dubbio un riferimento importante per me. Nei suoi lavori (in particolare quelli dei primi anni Sessanta) mi affascina la semplicità con cui si passa dal segno alla superficie. Per me è un percorso mentale. Dal mio punto di vista, importa poco se la direzione del segno sia diagonale o ortogonale. È il suo accumulo, la sua ripetizione che mi interessa. Trovo che nei reticoli di Dorazio la pennellata sia la conseguenza di un “ragionare” sul gesto e sulla sua capacità di divenire “forza generatrice” di superfici. È una metamorfosi che, a mio parere, avviene anche nel colore: si accumula, si somma, si sovrappone in filamenti fino a generare una sorta di “non colore” fra il grigio, l'azzurro, il bruno ecc. che trovo estremamente affascinante ed attuale, anche in funzione di ulteriori sviluppi nel campo del monocromo.


G. B. Ecco, tu Rolando lavori da sempre su questo “accumulo” di segni, sulla ripetizione – grazie anche all’uso della tua specialissima tecnica, cioè applichi le trame di filo da cucito sulla tela su cui poi, con una grande spatola, stendi il colore – che tende quasi a “sparire” in favore dell’apparire della luce. Negli anni passati amavi comporre i quadri con fasce di colore diversificate, queste comunque non segnavano mai un contrasto ma degli slittamenti dal più chiaro al più scuro o comparivano grigie come un intervallo. Anche qui, se l’uso delle bande di colore rimanda a Mark Rothko, tu non esiti, a differenza dell’Americano, ad usare anche la loro verticalità.
Recentemente la composizione è più complessa: all’interno della tela ora abbiamo tre o quattro “campi” geometrici e cromatici, ben marcati e sempre rettangolari, di cui alcuni, sempre col tuo tipico slittamento di colore, sembrano quasi acquisire la funzione di “ombra”, che si compongono parallelamente in linea o anche, recuperando un’antica modalità della scultura greca teorizzata nel Canone di Policleto, a chiasmo. L’ombra, sappiamo, ha grandi valori simbolici, è il “doppio”, è testimonianza di realtà e così via. Allo stesso tempo puoi, proprio grazie alla sicura consapevolezza che hai raggiunto, anche tentare il monocromo, direi quello delle origini, cioè realizzando opere con solo il bianco.

R. T. Nei lavori recenti tendo ad usare il colore in modo più strutturato. Ho accentuato i contrasti perché mi interessa dare al quadro una definizione architettonica, in modo che i pesi e le masse si sostengano a vicenda e si pongano in equilibrio fra di loro. È un sistema che mi consente un'ampia gamma di soluzioni, che studio a tavolino. È vero d'altra parte che i volumi proiettano ombre e queste, come giustamente osservi, portano con sé una componente evocativa che è difficilmente riconducibile all'atto progettuale. Mi piace viaggiare su questo sottile confine fra definizione ed evocazione, fra “riduzione ad uno” e sdoppiamento. Credo che l'inconscio abbia una parte importante nel mio lavoro, al di là della scelta di campo decisamente razionalista che lo caratterizza.


G. B. Certamente, Querci, tu riprendi, di Mondrian, anche il grande rigore etico. Dopo il tuo primo periodo, perfezioni gli elementi del tuo linguaggio che rigorosamente, pur con pochi elementi compositivi, “ripeti”, ovviamente nella “differenza”, secondo la lezione di Gilles Deleuze.
Sono solito dire che alcuni artisti, anche tra i più grandi, perseguono, con una tenacia che sfiora l’ostinazione ( morale, non quella delle “teste dure”), per tutta la vita un unico obiettivo estetico, ripetendo all’infinito i loro segni e le loro composizioni, che possono essere figurativi, come nel caso di Giorgio Morandi, o astratto-concettuali, come in Enrico Castellani.
Ebbene, credo che tu possa rientrare a pieno titolo in questa categoria: infatti, con solo due “colori” e con rettangoli e/o strisce, neri e bianchi, ci parli di un mondo che, al di là dell’estetica, va a stimolare l’emotività con lo sguardo e la conoscenza con la ragione.
Così ottieni un ritmo non regolare, non contrappuntistico ma con interruzioni e riprese, balzi e fermate, con tonalità che vanno dall’adagio al presto, quindi con un andamento mai rapido o vorticoso, bensì ponderato e concentrato.
Possiamo anche dire che tu “annulli” la superficie perché essa stessa si dà nella sua spazialità che non è mai de/finita, infatti lasci sempre uno o più lati bianchi, ad indicare una via di fuga, una possibilità di percorso e di sviluppo diversi della composizione che poi, come in una catena o nel gioco del domino, potrebbe essere, a livello concettuale, proprio il luogo, il punto (inconscio o mentale) che ti spinge a ricominciare ( a creare una nuova opera).

B. Q. La mia ostinazione, come correttamente tu la chiami, è per me l’irriducibilità fisiologica a concepire l’opera, è il mio modo congeniale a creare nuove immagini dove l’infinita possibilità pittorica si rigenera. Per me l’opera è sempre unica e irripetibile e nasce dalla costruzione degli elementi pittorici. Anche l’uso della bicromia bianco nero non è una contrapposizione al colore, ma è il normale sviluppo al mio modo di formare, è la dialettica per me necessaria al fare la forma che è sempre risultato involontario, non dipendente dalla volontà dell’artista, ma risultato dell’opera, opera che ha sempre una logica poetica. È l’opera a indicare all’artista il percorso e non viceversa, nella ricerca della naturalità dell’immagine stessa.


G.B. Ecco, ora pongo un problema a tutti e due. Sicuramente i vostri lavori possono essere affiancati a creare un dialogo, nella differenza e nei contatti possibili. Abbiamo già visto che vi avvicina il modo etico con cui vi ponete di fronte alla pratica pittorica, e, pur risiedendo entrambi nei territori dell’astrazione, poi ognuno di voi declina questo vasto campo in maniera differente. Stando alle ultime vostre parole, mi pare di poter cogliere una differenza nel considerare proprio il rapporto artista/opera.
Tessadri, dici che di fronte al problema dell’equilibrio – delle masse compositive, delle cromie, dei segni – decidi “al tavolino” le varie possibili soluzioni. Così l’opera è il risultato di un ragionamento profondo e della scelta consapevole e razionale dei mezzi linguistici da usare. Naturalmente la tua razionalità non annulla l’estrema sensibilità delle tue opere, frutto anche di un’evidente “passione” nel fare arte.
Tu, invece, Querci affermi che l’opera, per così dire, è una sorta di epifania “spontanea” dei contenuti che appaiono in essa. Questo ragionamento mi ricorda, mutatis mutandis, il procedimento mentale di Michelangelo a proposito della scultura, quando affermava che la figura era già tutta dentro il blocco di marmo e che il lavoro dello scultore consisteva nel togliere il superfluo che impediva l’apparizione dell’opera.

R. T. Sì è vero, ho un approccio analitico alla pittura. Lavoro per gruppi di opere che si distinguono fra di loro per alcuni elementi specifici: un certo modo di distribuire e abbinare le forme, i colori, le superfici eccetera. Sono dei mezzi che seleziono sulla base dell'esperienza e che poi sviluppo con un metodo combinatorio. Tendo a rispettare le regole che mi pongo fino a quando non sento maturato il momento di andare oltre. È un procedere lento, naturalmente, e razionale perché penso sia importante questo persistere sul progetto. Credo molto nella lentezza dei processi creativi.

B. Q. Nel mio lavoro la figura-forma si dipana nel momento stesso del fare, è intrinsecamente legata al fare pittorico, ad una fusione immediata degli elementi strutturali della pittura. Il rapporto figura fondo è rapporto dialettico e dinamico, è tutto presente come materia formante ed è frutto della costruzione della superficie, quindi l’opera sarà risultato involontario, frutto dello scavo della superficie.


G. B. Orbene, per finire questa nostra bella e intensa conversazione, vi pongo una domanda che riguarda voi come soggetti operanti nell’arte contemporanea e la collocazione del vostro lavoro in essa, essendo la vostra opera apparentemente legata al recente passato più che all’oggi.
Mi spiego: viviamo un tempo in cui sembrano imperare i “nipotini” (non gli “eredi”) di Duchamp e della Pop art con lavori molto insignificanti se non proprio Kitsch e spesso lontani dalla capacità e qualità tecniche che molti artisti pensano non servano (assieme alla “manualità”) per essere veramente “concettuali”; ecco, voi come vi ponete in questa situazione?
Naturalmente l’arte, quella vera, aborre le “mode” ed è sempre “inattuale”, perché quella “attuale” è destinata ad essere effimera, dato che sarà superata da quella “attuale” futura – e il futuro è già immediatamente dopo l’attimo presente – e così di seguito. Invece ho sempre sostenuto che l’arte è tale in ogni epoca e in ogni luogo e perciò emoziona e fa riflettere al di là del tempo e dello spazio, magari in modo diverso ma sempre ugualmente intenso.

B. Q. La domanda che poni è centrale al fare artistico, penso che l’arte al di là delle mode abbia una sua necessità fisiologica, che abbia un suo tempo, il tempo che l’opera esige in quanto raccoglitrice di sostanze e di sentire umano e per questo è al di là delle cronologie temporali. Certamente l’artista è nel proprio tempo e ne esprimerà la contemporaneità, ma essere contemporanei non vorrà dire non riconoscere il tempo storico da cui l’opera deriva. L’opera non è fotocopia del proprio tempo, non è passaggio immediato ma è contrasto del proprio tempo perché all’interno dell’opera stessa esisteranno delle sostanze-visioni che dovranno essere svelate, contenenti nuovo futuro.

R. T. Porto avanti la mia ricerca senza preoccuparmi molto del fatto che abbia un rapporto con quanto accade intorno. Mi riconosco in ciò che faccio e penso che questo sia sufficiente a motivare le mie scelte. Poi, secondo me è importante mantenere fede alla propria storia personale ed evitare di rincorrere le mode. La pittura ha una grande forza, trovo sia un modo molto sincero di esprimersi. In pittura è difficile barare e questo mi piace, perché dipingere mi pone di fronte a delle responsabilità e forse è proprio questa dimensione etica a dare senso all'astrazione oggi.

G. B. È giustissimo questo richiamo alla responsabilità etica dell’artista. Un volta Giorgio Griffa disse che il pittore, proprio perché sulla tela può fare ciò che vuole, ha un’enorme responsabilità morale. Così l’artista ha un impegno di fronte a se stesso e agli altri, senza poter utilizzare normative codificate, come avviene in altre discipline anche artistiche, e anche voi quindi, nel vostro rigore e nella vostra coerenza, rientrate in quella schiera di artisti che possono far proprio quel famoso concetto di Immanuel Kant: “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”.


Querci - Tessadri: un'astrazione rigorosa
Galleria Giraldi, Livorno, 2015
a cura di Giorgio Bonomi


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